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Cosa significa morire? Una domanda senza tempo

 

Che cosa significa morire. In tutte le culture e in tutte le epoche ci accompagna l’interrogativo. 

Religioni, storia e filosofia, arte, letteratura e scienza da sempre girano attorno a questo che è l’enigma più grande. Nuove scoperte scientifiche, ci forniscono nuove prospettive, ma certezze per come le vorremmo non ne abbiamo. E le domande restano: che cosa accade alla persona che abbandona la vita?  

Dalle fonti storiche sappiano che nelle varie epoche e culture hanno prevalso le più diverse rappresentazioni sul destino dell’essere umano dopo la morte. Ciò che noi chiamiamo il volto della morte ha avuto un altro significato rispetto a quello odierno. La comprensione essenziale della morte ha subito numerose trasformazioni. Tutti i documenti che ci sono rimasti testimoniano che l’uomo nei tempi passati non si poneva la domanda su che cosa fosse la morte ma su che cosa accadesse all’anima dell’uomo dopo aver lasciato il mondo fisico. 

Nella cultura Paleo-Indiana, l’uomo si sentiva immerso, come inserito in un involucro protettivo che era la stessa realtà spirituale. La vita era uno stato illusorio, nebuloso, detto Maya. La vera realtà sta proprio solo nel mondo spirituale, nel quale possiamo ritornare solo grazie a uno stato eccezionale, allo yoga che fu la prima forma d’iniziazione in quest’epoca. Quel mondo “abitato” di esseri e processi spirituali è reale, ma tutto quanto l’uomo vede con gli occhi è irreale, è illusione, è maya. La morte era la liberazione dal mondo fisico e il divincolamento da esso per l’anima, in estrema sintesi quindi un atto liberatorio. Ne restano a testimonianza gli scritti filosofici dei Veda e nelle correnti sankya e come accennato dello yoga.  

Avanzando nella linea temporale, nell’epoca di cultura sumero – babilonese, la morte acquisisce i toni della pesantezza, del dolore, della perdita dallo stato della vita caratterizzato dai piaceri della materia, della luce, come si ritrova nell’Epopea di Gilgamesh (Il primo lavoro letterario in forma scritta e il primo canto per i morti mai tramandato). Una separazione incisiva e dolorosa dalla vita. Per i Sumeri la dimensione della morte era solo una triste trasfigurazione di quella della vita; pensavano che i morti o la loro anima, vivessero in una città sotterranea cupa e priva di luce. Ciò che rendeva molto avvilente la loro visione era l’impossibilità di un riscatto, di una rinascita, di un’ascesa verso una dimensione migliore. E questo era il destino di tutti.  

Con l’epoca egizia, sia ha uno spostamento importante: la morte mette le radici al centro della vita. Il popolo egizio vive in funzione della morte ci si prepara ad essa.  Si vive sapendo che si trapasserà una soglia dal fisico allo spirituale: la mummificazione non ha semplicemente il senso del mantenimento del cadavere, ma è un ponte fra il corpo fisico e l’anima che si eleva nei mondi spirituali. La morte non è più solo la fine della vita, ma è un portale aperto sul cammino dell’aldilà.  

La successiva grande epoca dell’evoluzione dell’umanità è quella dell’antica Grecia. L’idea della sopravvivenza dell’individuo dopo la morte è ben presente nel pensiero greco sin dalle origini, anche se l’esistenza della psyche nell’aldilà perdura in modalità piuttosto diverse da quelle che oggi associamo al concetto cristiano di “anima”. Si ritiene che al momento della morte la psyche (che alla lettera significa “respiro”) abbandoni il corpo (soma) restando sulla terra sino al compimento dei riti funebri, dopo i quali essa può finalmente scendere tra i defunti.  

Le risposte fornite dai Greci su come e cosa accada all’anima detta psyche (l’anima era identificata con il vitale, il soffio, a cui ripota etimo) In tempi e luoghi diversi sono estremamente varie le vicissitudini per tale soffio: in un’epoca molto antica – si pensi a quanto attestano i poemi omerici – la psyche non si aspetta nessuna retribuzione per il comportamento tenuto in vita.  

 Nei poemi epici la psyche continua a esistere nell’Ade, ma in una forma appena percettibile, fortemente “diminuita” rispetto al vivente: essa ha la stessa natura dei sogni, cioè non ha più alcuna consistenza materiale, è priva di forza e non conserva né memoria di ciò che è stato, né alcuna coscienza di sé, ma vaga senza poter parlare, emettendo stridii simili a quelli di un pipistrello. Il mondo dell’aldilà è chiamato “la dimora di Ade”: il suo nome significa per i Greci “l’invisibile” sia perché tutto ciò che vi entra scompare alla vista, sia perché esso stesso rimane nascosto ai viventi.  Il regno della morte è un mondo di ombre in cui le anime dei defunti vivono in una forma incorporea, nebulosa, una controfigura del loro corpo fisico di un tempo. L’uomo greco teme questo mondo infero, soltanto l’eroe cioè colui che è dotato di speciali facoltà e che ha una particolare preparazione può penetrare in tale mondo condotto dall’amore e dal dolore e può tornare indietro da vivo.  

A partire dal VI secolo a.C. il quadro dell’aldilà muta sensibilmente rispetto a quello tracciato dai poemi omerici: nuove prospettive escatologiche, che ampliano i possibili destini dell’anima dopo la morte, sono elaborate in specifici contesti culturali, in particolare quello delle iniziazioni, riti nei quali la promessa di un’esistenza migliore nell’aldilà è essenziale. Più in generale, a partire almeno dall’età classica, al dio Ade (e talvolta anche alla sua sposa) si attribuisce la funzione di giudice delle anime.  

Così, l’immagine “egualitaria” dell’Ade omerico si sdoppia: ai morti può essere riservata una vita gioiosa nei Campi Elisi o una di sofferenze nel Tartaro. Nel primo caso le anime dei defunti trovano la loro ultima dimora tra prati fioriti e luminosi, nei quali continueranno a celebrare simposi e danze; nell’altro, gli empi sono sottoposti a punizioni, una delle quali consiste nel restare immersi per sempre nella palude infera. 

A cura della Dott. Simona Maroni 

Fonti: 

Iris Paxino, Ponti fra la Vita e la Morte 

Enciclopedia Treccani 

  1. Steiner O.O. 103 – Il Vangelo di Giovanni 
  2. Furlani, Sepolture e costumi sepolcrali babilonesi e assiri secondo gli scavi recenti 

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